Conversazione con Patrizia Giambi

lunedi 25 giugno 2001 

A cura di Mauro Panzera

estratto da 'Patrizia Giambi, Carta dei dieci anni' , Mauro Panzera , Edizioni Galleria Neon, Bologna, 2001

 

Vorrei ripercorrere con te questi tuoi anni di attività artistica e come luogo ideale in cui svolgere questo dialogo abbiamo scelto la Galleria Neon di Gino Gianuizzi, a Bologna, luogo che ti ha tenuto a battesimo nell'inverno dei ‘91. Fisicamente il luogo non è più quello, altra strada, altro quartiere: ma la ragione ideale permane.

Però per te Bologna significa un ulteriore passo indietro nel tempo, a molto prima del 1991. Allora, ferma la data iniziale del ‘91, c'è una storia precedente da raccontare.

Nel '91 propongo a Gino e a Roberto Daolio quattro stampe fotografiche in bianco e nere: opere che sono il risultato di una ricerca che procedeva da diversi mesi.

 Sono quindi quattro stampe di documentazione?

 No, si presentano come lavoro compiuto e sono il modo con cui ho dato le gambe a questa ricerca sul linguaggio, nata come necessità dopo lo studio del testo di Kosuth Art after Philosophy 

Per me questo lavoro segna il passaggio definitivo di una elaborazione, durata diversi anni, in merito alla mia formazione umanistica, linguistica; scrivendo e dando forma al pensiero anche attraverso il lavoro di altri artisti. Con questo salto alla presa dì visualità pura avevo concluso un processo personale.

 Quindi tu hai compiuto un percorso anomalo...

Avevo concluso con la laurea un ciclo di studi tradizionali, umanistici. Tutto fa pensare che sia avviata alla solita carriera di insegnante. In realtà butto tutto all'aria. Di rientro da Londra nell'82 tento un esperimento a casa mia, a Forlì, propongo ad artisti locali di costruire questo luogo aperto: avevo voglia di creare situazioni. 

lo spirito era quello dì intervenire con modalità da spettacolo?

No, l'impronta era una circolaritá arte-vita, portavo il mio vissuto, mi mettevo in gioco e ciò che emergeva era un’esperienza da far risalire all’ambito Fluxus. 

 Puntualizziamo. Sensibilità per i linguaggi artistici, da un lato; un gran bisogno di creare situazioni, dall’altro: due caratteristiche totali che si ritroveranno nel tuo lavoro artistico ma che nascono in tempi e contesti distinti. Quindi tu a Forlì riesci a creare questa situazione, che dura nel tempo e che produce anche un momento ufficiale, che coinvolge amministrazioni locali ed enti europei. Possiamo raccontare questa vicenda, che gira intorno al Palazzo dei Diavolo? 

C'è questo magnifico Palazzo del Diavolo, palazzostorico dove la mia famiglia abitava. Ricavo uno spazio sottotetto, molto ampio, riesco a procurarmi finanziamenti, c'è una produzione costante di pubblicazioni, fino al catalogo del 1988, “Prove Generali”.

Il clima è effervescente e prende forma un laboratorio sperimentale.

C’è un avvicendamento di personalità: Angelo Schwarz, oggi docente all’Accademia Albertina, vero pioniere di storia della fotografia in Italia; Richard Martel, esponente Fluxus canadese, collaboratore di Filliou e Maciunas; Maurizio Cattelan; Pierre Restany; Simon Patterson, allora legato alla Milch Gallery di Lauren Mabel a Londra, l’allora cosiddetta slim art.

Questo volume di scambi e di interessi ha condotto ad una irreversibile discrepanza con l’ambiente locale dell’arte, la cui arretratezza sentivo ormai antistorica.

 Come recuperi l’esperienza maturata per giungere all’inverno del ’91, cioè alla tua prima esposizione in prima persona? 

Il 1990 è stato un anno cruciale; perché fin lì concepivo la mia attività come parte di un organismo, che comprendeva anche altri individui. Nel ’90 c’è il concepimento di due opere molto diverse tra loro. Le sedie - un fare con la massima semplicità, un fare risolto con strumenti e modi semplicissimi; e Il Casanova - una grande opera in cui mi cimento.

Il Casanova è tecnicamente una scenografia teatrale, un progetto per Venezia: tu lì acquisisci uno spazio che è architettonico e insieme scultoreo, perché verrà usato dagli attori ma si offre anche come oggetto:

Sì, ha la caratteristica di essere una struttura autonoma e autosufficiente, con una funzionalità che non ha senso perché è circolare, è un fare esperienza della struttura stessa.

Realizzata per il Centro Teatrale La Giudecca, è il ribaltamento della situazione teatrale, che è frontale e per successione, in una circolare a visione simultanea. Però io sentivo che, anche se questa tensione alla costruzione è in me forte e costante, dovevo risolvere questioni di elaborazione dell’opera a partire da una autonomia di linguaggio.

La sedia diventa questo luogo; c’è la sedia di Cezanne, la sedia di De Kooning, la sedia di Kosuth…penso che ogni artista dovrebbe proporre la “sua” sedia, come manifesto degli intenti.

Il lavoro Le Sedie ha un evidente rapporto con l’opera di Kosuth ma laddove questi mette in luce gli statuti ontologici distinti nell’operazione linguistica, tu invece metti in gioco…

Vorrei subito precisare però che il testo di Kosuth non è certamente per me l’unico di riferimento, furono allora molto importanti i testi di Agamben e di Perniola; c’era il mondo di Fluxus e ci fu la Historia Abreviada de la Literatura Portàtil, che studiai in Spagna e che solo una decina di anni più tardi sarà pubblicata in Italia, che mi introdusse alle Avanguardie da tutto un altro approccio che non fosse quello storico-manualistico e che illuminò la mia presa di coscienza sul Novecento. Per non parlare della decisiva influenza esercitata su di me dal pensiero di Pareyson; il suo “la verità non la si afferra se non nella forma di doverla cercare ancora” è per me quasi orazione quotidiana. 

Tu invece metti in gioco, stavo dicendo, anche un gioco di prestigio. L’immagine diventa un inganno, è la luce che fa magia, tra la formulazione linguistica e la silhouette: non immagine diretta ma immagine dell’ombra.

Tutto ciò è anche legato al momento, al passaggio di Decennio: siamo agli inizi degli anni ’90, con alle spalle un decennio di Arte Fredda. Sentivo un gran bisogno di visualità, di una immagine chiara - e l’ombra è chiara - e la necessità di superare il verbo; avevo bisogno che l’immagine contenesse il verbo. Infatti subito dopo mi esprimo con un lavoro coloratissimo, molto sensuale e visivo. 

E sarà la macchina da scrivere modificata. Vorrei però capire come ti nasce la determinazione a mostrare le opere in prima persona, in una galleria d’arte, pur se la Neon è soprattutto luogo di sperimentazione più che di mercato dell’arte.

Perché sento che posso dare un mio contributo a ciò che sto vedendo e diventa per me urgente farlo. Partecipavo già al sociale artistico.

E’ una linea netta che separa il prima dal poi: fine estate 1990, una epifania, una memoria precisa. Mi assumo il rischio.

 Gino Gianuizzi ti accoglie e Roberto Daolio ti presenta…

 Conoscevo già entrambi, c’era un dialogo tra di noi. Un bel giorno vado a trovare Daolio in Accademia con le mie stampe arrotolate sotto braccio e nella saletta gliele mostro.

Coincide con la presa di coscienza artistica la decisione di andare a Los Angeles?

 No, vado a Los Angeles per caso, ancora una volta. Amici mi invitano, mi convincono e parto. Mi porto sotto braccio un po’ di lavoro fatto in Italia e giro per gallerie, spazi d’arte, conosco l’ambiente e a volte mostro il mio lavoro: qualcuno mi offre di esporre, per reali sintonie. Ben presto incontro Sue Spaid, inizialmente gallerista e che poi segue la sua vera vocazione di curatore, critico, saggista. Il suo spazio sulla Beverly Boulevard è in quel momento il vero cuore di Los Angeles; da lì usciranno artisti interessanti, come Jacci den Hartog e Steve DeGroodt.

C’è da dire che nel ’91 a Los Angeles la generazione dei Mike Kelley, Lari Pittman, ecc…, già dominante, ha concluso la fase propulsiva.

Come trovi il mondo artistico californiano?

 Splendido! Finisco col vivere a Los Angeles cinque anni pieni, dal ’91 al ’96, costruendomi dei rapporti stabili, non solo ho casa e studio ma amici e sodalizi intellettuali. Mi devo confrontare immediatamente con diverse metodologie artistiche: la lezione del pragmatismo americano si fa sentire. Devo soprattutto vivere con la mentalità di frontiera: grande apertura e velocità. Shoshana Wayne, tre giorni dopo aver conosciuto il mio lavoro, mi propone una personale.

Shoshana Wayne è già una galleria di dealers potenti, di elevata cultura internazionale; produce artisti come Bruce Nauman, Kiki Smith, Yoko Ono, Anselm Kiefer…prova a pensare la stessa situazione in Italia…tanta potenza che produce un autentico debuttante: non s’è mai visto!

Solo tre anni dopo stessa accoglienza a Chicago da Zolla/Lieberman.

Shoshana, Wayne, Roberta Lieberman sono stati straordinari con me, veri amici. Lo spirito che li guida è la parte migliore del sistema dell’arte. Qui il sistema è ingessato, è burocratico.

 Ecco, lì concepisci e mostri la nuova opera…raccontiamo il progetto: abbiamo ancora a che fare con i problemi della comunicazione 

In quel periodo sono ancora molto presa da quell’”errore l’inguistico” - cosa io porto agli altri e cosa gli altri portano a me nella comunicazione? Da un lato ho il peso della formazione culturale basata sulla lingua scritta; dall’altra la mia esperienza fondata sull’oralità, legata agli incontri, una cultura militante. Rielaborare tutto, ecco il compito; portare una dimensione sensuale nella meccanica, inventando un alfabeto per la trasmissione orale.

 E’ una specie di ponte tra scritto e parlato…

 E’ l’esercizio plurilinguistico: mio, da una parte, italiana con cultura anglofona; della California, dall’altra, che non insiste più in una cultura anglofona ma è crocevia con il sudamerica e l’oriente.

 Su quale lingua ti basi per la tua tastiera?

 Uso ventiquattro suoni che non sono inglesi ma occidentali: ventiquattro suoni ricorrenti nelle lingue occidentali. La combinazioni di questi suoni può dare origine a parole in inglese, francese, italiano e spagnolo.

 Per cui la versione italiana si avvarrà di una macchina Olivetti ma la tastiera rimarrà la stessa.

 Certamente, proprio perché il campo di applicazione è molto vasto.

 Il risultato di tutto ciò è visivo, sono delle strisce con le labbra in posizioni diverse, che scandiscono suoni, che a loro volta compongono parole.

 E’ un lavoro che ho utilizzato per situazioni diverse tra loro. Ho detto delle cose, ho raccontato dei segreti, ho scritto delle indicazioni stradali. Ho fatto intrusioni in situazioni pubbliche, nei bar o nella metropolitana romana, ma anche in gallerie private, anche a Bologna alla Neon. Sono delle scritture con un segreto e una visibilità.

 Come è stato letto a Los Angeles questo lavoro?

 Gli americani hanno accettato la seduzione intrinseca alla sensualità dell’opera. Poi la critica ha operato una lettura di tipo femminista: stranamente, devo dire, rispetto alle mie intenzioni. Strano perché, in primo luogo, la bocca è stata intesa come bocca femminile laddove in realtà è una bocca maschile che parla; in secondo luogo, un’autorevole critico quale Susan Kandel, sulla scia della posizione intellettuale di Irigaray, ha indicato, come elemento qualificante del mio lavoro, il linguaggio segreto e recondito della oralità femminile, di contro al potere maschile della scrittura.

 Tutte cose che non costituiscono per te un punto di interesse…

 Sì, per l’attenzione all’oralità, per il rapporto natura/cultura, ma non in contrapposizione maschile/femminile. 

Ma anche in  Italia l’oralità era centrale per il punto di vista femminista.

 E infatti anche il Italia il lavoro è stato letto così, per esempio da una critica attenta al pensiero femminista come Francesca Pasini, che usa gli stessi approcci della critica americana, in maniera completamente indipendente. In verità non c’è e non c’è mai stato un approccio femminista nel mio lavoro, perché non è un archetipo che mi interessa: io mi sento individuo artista indipendentemente dal mio sesso. 

l’arte al femminile è dunque destituita di senso…

Sì, l’arte al femminile non riesco sinceramente a capire che cosa significhi. Hanno forse sesso gli angeli? Sono artista donna, ma le mie mani possono fare come quelle di un uomo, ed anche i miei emisferi cerebrali: il bagaglio di storia personale se lo portano dentro tutti. La novità donna è una truffa, la truffa femminista, un ombrello ideologico importato dall’America e neppure tanto recente. Ma che utilità metodologica può avere: la cucina, il privato, il ricamo…Come diceva Gertrude Stein l’artista è un’appendice dell’opera, e non viceversa. Cos’è questa proliferazione di bamboline e vagine? È un salvagente per l’identità ma non è una categoria capace di generare qualcosa di importante, un sociologismo utile per parlare dell’artista, non avendo nulla da dire sull’opera.

 Per restare all’interno dell’universo dei linguaggi e dei codici: nel ’94 metti in campo una nuova indagine che è legata alla misura. 

Torniamo in California: sono nel Nuovo Mondo, sono in un contesto che ha un suo criterio; la luce è diversa, è rosa, il cielo è vastissimo, la città è tutta una architettura bassa. Io sto rinunciando sempre più alla materia, le strisce con le labbra sono arrotolabili, sono pellicole di materiale plastico. Nasce questo approccio all’elasticità: è proprio come se i miei pensieri si allungassero o accorciassero, la rinunzia alla lingua natale è come una rigenerazione. Io sono molto viscerale, mi viene da dentro la ricerca di una mia misura individuale. Questi metri non variano per cifra o per la massa ma varia la loro estensione nello spazio.

 Sono autocontraddittori. 

Sì, abbiamo ancora a che fare con schemi culturali e io introduco la soggettività nella istituzionalità.

 Mi sembra però che si crei anche un ponte con la scultura teatrale: qui entra l’esperienza dello spazio. L’elasticità, che è mentale e di vissuto, è anche fisico-spaziale. 

Vero, ed inoltre viene chiesto al visitatore di entrare in relazione diretta…

 Devono essere manipolati questi metri…

Sì, devono essere manipolati per essere capiti, perché ti diano la tua misura. Chiedere poi al pubblico di entrare attivamente nell’opera, è cosa che permane nel lavoro successivo.

 Questa è una novità anche rispetto alla macchina da scrivere, che era funzionante ma non poteva essere usata dallo spettatore: stava lì a dimostrazione del processo produttivo ma nessuna stampante ad essa collegata avrebbe potuto riprodurre nuovi pronunciamenti. Allora l’elemento nuovo, che caratterizzerà il tuo rientro europeo, è questa unità di fare e far fare. Tu hai usato infatti soggetti altri in funzione dimostrativa, rispetto  a quest’opera.

Sì, ho creato situazioni per sperimentare gli elastici. Ho messo in relazione due persone, a volte ho stampato parole sui metri, a seconda della tensione esercitata queste parole perdevano in leggibilità. Vedi, mi interessa il “fare” che mentre fa, inventa il “modo di fare”. E’ un atteggiamento di sbieco che mi permette di entrare e uscire dalle tecniche senza dovermi conformare ad esse. 

E’ interessante notare che il tuo ritorno europeo avviene con un nuovo lavoro che unifica ai proprio interno molti elementi che erano stati tematizzati precedentemente. Intendo parlare delle strisce pedonali, che sono elementi di comunicazione e richiedono un fare ma richiedono anche la partecipazione di chi fruisca di questa opera/esperienza. Le strisce sono dispositivi per far fare esperienza, in relazione alla libertà del muoversi.

 Possiamo distinguere vari passaggi operativi nel mio pensiero artistico; ma costante è stata l’attenzione verso il codice condiviso - fosse l’alfabeto, la scrittura o la misura. Ora, le strisce diventano la rottura del codice all’interno del codice stesso e in questo caso non si da più un esterno e un interno. Nelle esperienze precedenti il pubblico era consapevole perché tutto avveniva in una galleria d’arte. Ora il pubblico non lo sa, non è consapevole di attraversare delle strisce clandestine. E’ ciò che mi interessa: modificare comportamenti senza doverlo premettere, senza segnalazioni di sorta: e infatti le mie strisce sono identiche a quelle segnaletiche. Chi le attraversa, fa un atto clandestino, ma lo compie nella regola, nel codice. Peraltro, questo lavoro coinvolge attivamente altre persone che invece sono consapevoli dell’operazione e ne condividono il progetto e il senso: è un lavoro collettivo.

 Questa azione si è sviluppata come una tournée. 

Sì, autorganizzata per giunta; si trattava di predisporre i luoghi, avvalersi di gallerie di copertura in cui contattare soggetti che ne condividessero l’attuazione…tutto un lavoro complesso e faticoso.

 E’ interessante questo tuo continuo sottolineare il non organizzato: un mondo artistico che si costituisce per via di rapporti personali, in orizzontale.

E’ nella natura del mio fare: l’artista non è un bebè, l’artista è una persona consapevole che cerca persone con cui condividere e creare momenti. E’ un atteggiamento politico. Il sistema dell’arte così com’è non mi convince perché manca l’espressione dell’artista che è un individuo adulto. Non mi interessa la gerarchia, ed è disinteresse che costa, ma credo nelle cose, negli incontri, nella solidarietà tra pari, nell’incontro con altri artisti. Io cerco il confronto e il giudizio degli artisti. 

Mi sembra che tu stia toccando punti qualificanti. Oggi il progetto del sistema dell’arte è raggiungere sempre più pubblico; allora ci si chiede: qual è il luogo degli artisti? Essi sono una comunità di valore: non fanno corporazione ma irradiano energia e pescano energia dalla società.

 Sì, vedi, oggi non ci sono più caffè o circoli letterari ma si frequentano le mostre d’arte; ora questo nuovo rito serve per vendere, per segnalarsi, oppure è l’occasione per mettere in circolazione idee sull’arte, alla ricerca di una condivisione? Io non credo al sistema piramidale dell’arte ma a quello orizzontale.

 Ma tu credi nell’arte, nella sua capacità di fare valore; il tuo interlocutore è l’artista e non cerchi di disperderti nel sociale ma chiedi che il tuo lavoro abbia un rigore. 

Io non mi confronto, non mi rivolgo alla società ma alla comunità degli artisti. Il sistema di comunicazione di massa non mi appartiene; credo nel dialogo e lo pratico, anche con antichi sistemi come la lettera, con molti amici e colleghi in tutti i punti del globo. La massa è fondamentale nell’economia dell’arte: il mio problema è come evitarla. Recentemente un mio intervento aveva proprio questo tema: sommare il peso delle persone presenti in un certo luogo per un determinato evento. Il XX secolo ha posto due problemi: la burocrazia e la massa; da un lato Kafka, Benjamin, Simone Weil; dall’altro Canetti. Ma è paradossale che il sistema dell’arte abbia al proprio interno queste stimmate. Dobbiamo sopravvivere oltre la massa e la burocrazia; cioè oltre l’organizzazione dell’arte e il bisogno di legittimazione. 

Con quest’ultima osservazione hai introdotto l’ultimo capitolo di questa nostra conversazione; è il capitolo vivo, dei lavori in corso, che tu chiami Inventario Morale. Inizia con la dichiarazione di affezione a un luogo, la tua casa. 

Sì, esatto. Esco dal luogo che è affermazione del sé artistico - la mia casa studio - che è il luogo della storia, e mi ritrovo come nomade; ricordi le scarpine col filo spinato. Ora non esiste più il luogo del fare e del creare, guardo il mondo da nomade e il rito dell’essere artista l’ho portato fuori: ricreando la casa tramite rovine, pezzi di intonaco strappato. In questo fuori chiedo agli artisti di fare qualcosa con me, porto loro nel mio lavoro. Ecco allora il materasso con il maialino; la finta stanza con i giochi di società; il rito del bere il caffè. Sentire che tutto ha un’anima: sento il bosco, come prima sentivo la strada, sento che l’aria deve avere l sua forma; sento il pianeta. 

E’ una fase di grande sensibilità, come se il fuori cercasse una propria formulazione ma siamo ancora dentro l’Inventario morale. Ricapitoli una vicenda, dai visibilità a momenti in un flusso continuo - è un tuo antico e persistente amore.