scritto in occasione della mostra personale "Carta dei 25 anni"  per il progetto Wuderkammer presso la galleria Riccardo Crespi, Milano,  giugno - ottobre 2016

Patrizia Giambi e il negativo della lingua

Marco Scotini

Senza infanzia non ci sarebbe, per l’essere umano, nessun linguaggio. E neppure una storia. L’infanzia è il segno - per dirlo con Agamben - che l’individuo non sia già da sempre un essere parlante. Che nessun individuo, vale a dire, stia nella lingua come nel proprio elemento: dove questo venga inteso come un repertorio stabile o limitato, se non quale vero e proprio istinto. L’imperfetta compenetrazione con il mondo, che è un tratto tipico dell’infanzia (e delle sue forme di adattamento e apprendimento ininterrotto), non è altro che la matrice stessa della lingua. Ad un congenito disorientamento dell’individuo  fa capo un mondo indefinito di gesti attraverso cui doversi orientare, sempre e di nuovo. In contesti imprevisti, privi di abitudini consolidate, di regole stabili.

La sfera dei gesti diventa allora il nucleo originario di una condizione di comunicabilità che esibisce un insieme di facoltà tali da non esaurirsi mai in un numero definito di realizzazioni, ma capaci di sempre nuove estrinsecazioni. Questi atti potenziali, anche dopo essere stati tradotti in lingua, non riusciranno mai a colmare il nostro gap comunicativo. 

Pensiamo ad un gioco infantile come quello delle ombre cinesi. Di fronte ad una fonte luminosa, aprendo i palmi delle mani in direzione opposta, e dopo aver sovrapposto i pollici tra loro, si ottiene l’immagine proiettata di un uccello in volo. Le mani rimangono tali, quali appendici del nostro corpo, ma il loro profilo esterno trasforma la loro ombra nella silhouette di un animale. Penso a questo semplice ed elementare espediente quando vedo un costrutto molto più complesso come quello delle ‘quattro sedie’ di Patrizia Giambi: Senza Titolo, 1991. Un’opera d’esordio “ma già matura”, come qualcuno scrisse allora.

Si tratta di quattro foto in bianco e nero in cui si legge la parola “sedia” in quattro lingue diverse. Ritagliati su carta, i caratteri grafici della parola sono disposti ortogonalmente ad un piano orizzontale (quello di un foglio, di una pagina?) e in modo tale da proiettare sul retro l’ombra di una sedia. Addirittura: prima di leggere la parola “sedia”, quello che vedo di fronte a me è proprio la silhouette di una sedia. Tuttavia si tratta di un’entità in negativo, di un doppio spettrale, rispetto ai corpi posti in luce della scrittura. Quest’ombra non è l’immagine della parola (fatta di cinque lettere alfabetiche) ma è l’ “altro” della parola: trasforma il suo essere in un’apparenza. Si è sempre fatto un riferimento immediato a One and Three Chairs di Kosuth ma non si può essere più distanti da quell’esempio. Certo, potremmo dire che abbiamo a che fare con una semiotica alla Pierce: l’indice della foto che ferma la scena, il segno della parola e l’icona, infine, dell’immagine. Ma c’è dell’altro.

Non so se Patrizia Giambi fosse a conoscenza di un esperimento condotto da Piaget nel 1927 sulle spiegazioni date da alcuni bambini sull’origine dell’ombra. “Indichiamo a Stei (cinque anni) la sua ombra in terra – scrive Piaget. ‘Lì c’è l’ombra?’ ‘Si l’ha fatta la sedia’” risponde Stei. Il bambino non riesce a riconoscere la propria ombra e la trasferisce alla sedia su cui sta seduto. Non vi si riconosce forse perché la proiezione è orizzontale, sul suolo, mentre lui è in posizione verticale. Ma soprattutto - si pensa - perché lo stadio dell’ombra non è quello dell’identificazione dell’io ma quello dell’identificazione dell’altro. Dunque, pur coesistendo all’interno della stessa immagine, la parola sedia e la sua ombra tradiscono un gap originario, mettono in scena la differenza come tale. Si potrebbe anche dire, con Broodthaers o Foucault, “questa non è una sedia” ma, anche in questo caso, non si coglierebbe quell’ineffabile (quel carattere fantasmatico) che Giambi insinua sempre all’interno dell’immagine. L’ombra qui è un po’ come la voce (o il movimento delle labbra) nella sua macchina da scrivere alterata del ’92 e ’93. Ma potremmo estendere il nucleo di questa ricerca anche alle combinazioni dei segni di Shape (1993), all’aleatorietà di Metro Elastico (1994),  alla precarietà di Summer Solstice (1996) fino alle ceneri di Personaggi poco corporei (2013). Ecco che ritorna continuamente questa originaria imperfetta compenetrazione tra i segni e le cose, questo negativo costitutivo, questa positiva e irriducibile differenza, che è anche al centro della nuova versione del lavoro delle sedie: Carta dei 25 anni. Con una rotazione di 360° sono ora delle piccole sedie di carta a proiettare l’immagine della parola sedia sul piano – e, ancora una volta, come un’ombra.